Il quite quitting è il fenomeno che descrive l’atteggiamento di chi si limita a svolgere solo ciò che è previsto dal contratto di lavoro, senza assumersi responsabilità aggiuntive né investire energia extra oltre il minimo indispensabile. In questo articolo vedremo cos’è il quiet quitting, quali fattori lo alimentano, perché preoccupa le imprese e quali strategie possono aiutare a prevenirlo o gestirlo in modo efficace.
indice dei contenuti:
punti chiave da ricordare:
- il quiet quitting indica il comportamento del “fare il minimo indispensabile” al lavoro, dovuto a una scarsa motivazione ed engagement
- cause principali: ricerca di un migliore work-life balance e insoddisfazione per l’ambiente di lavoro
- il quite quitting è un fenomeno generazionale: interessa soprattutto la Gen Z, che rifiuta il mito del vivere per lavorare
- il fenomeno delle “dimissioni silenziose” può essere affrontato grazie a una cultura human-centric e un’employee experience ottimizzata
che cos'è il quiet quitting?
Letteralmente, l’espressione “quiet quitting” si può tradurre con “abbandono silenzioso” o “dimissioni silenziose”. Queste traduzioni non rendono però in modo chiaro il significato del termine, che esprime un concetto un po’ più complesso.
L’espressione “quiet quitting” è un neologismo che si è diffuso soprattutto grazie a TikTok. Infatti, riguarda prevalentemente le generazioni più giovani, in particolare la Generazione Z, anche se il concetto al quale rimanda non è del tutto nuovo.
Chi pratica il quiet quitting sceglie consapevolmente di dedicare al lavoro uno spazio, un tempo e un ammontare di energie preciso e determinato. Senza fare quel “passo” in più, senza quella spinta a dare il massimo, senza dare troppo spazio all’attività lavorativa nella propria vita privata.
In pratica, questa volontà si traduce nel rispettare i tempi dell’orario di lavoro e i termini del contratto, evitando attività extra e straordinari.
Ci si limita a svolgere i compiti previsti ma non ci si sforza per offrire un contributo ulteriore, anche con la volontà di fare un salto di carriera. Si evita tendenzialmente di esprimere le proprie opinioni e di prendere parte a riunioni e discussioni non strettamente necessarie allo svolgimento delle proprie mansioni.
Si stabiliscono dei confini: il lavoro ha un inizio e una fine. Non si fanno eccezioni.
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scarica il reportquali sono le cause del quiet quitting.
Le ragioni che spingono un dipendente a praticare il quiet quitting sul lavoro possono essere molteplici. Raramente la causa è un evento singolo: più spesso è un malcontento che cresce nel tempo, alimentato da dinamiche organizzative, relazionali e personali.
Ecco le principali cause del quiet quitting:
- insoddisfazione economica e percezione di scarsa equità retributiva. Secondo l’Employer Brand Research di Randstad, lo stipendio è il terzo driver più importante nella scelta di un datore di lavoro e il primo motivo che spinge a lasciarlo. I salari che non tengono il passo con il mercato o con l’aumento del costo della vita favoriscono il quite quitting;
- scarso coinvolgimento e disaffezione verso l’azienda. Il report State of the Global Workplace 2024 di Gallup mostra che solo il 23% dei lavoratori nel mondo si dichiara davvero coinvolto nel proprio lavoro, mentre il 62% afferma di non sentirsi motivato né legato all’azienda. Un atteggiamento, questo, che spesso sfocia nel quiet quitting. Quando manca un reale senso di appartenenza all’organizzazione, l’impegno tende a ridursi al minimo indispensabile;
- forte stress sul lavoro. La già citata ricerca di Gallup evidenzia come i lavoratori che vivono emozioni negative sul lavoro siano molto più esposti al disimpegno. Oltre la metà di chi si sente ormai poco coinvolto e disinteressato (54%) dichiara alti livelli di stress, contro il 38% di chi invece partecipa attivamente e si sente motivato. Un clima pesante, fatto di ansia e preoccupazioni, mina il benessere e porta a “staccarsi” dal proprio lavoro;
- gestione inefficace da parte dei manager. Il 70% dell’engagement di un team dipende direttamente dai manager, secondo Gallup. Leader poco presenti, incapaci di fornire feedback costruttivi o di supportare i collaboratori favoriscono il quiet quitting. Anche i manager stessi, spesso sovraccarichi e soggetti a emozioni negative (il 24% riferisce rabbia quotidiana contro il 19% dei non manager), possono non riuscire a motivare i team;
- mancanza di chiarezza su ruoli e aspettative. Dopo la pandemia, molti dipendenti - soprattutto più giovani - dichiarano di non sapere con precisione cosa ci si aspetta da loro. Secondo Gallup, circa 4 lavoratori su 10 in smart working affermano di non avere obiettivi chiari. L’incertezza sulle responsabilità genera frustrazione e distacco;
- mismatch di competenze. L’indagine Inapp Plus mostra che solo poco più della metà dei lavoratori ritiene di svolgere un lavoro coerente con le proprie competenze, mentre circa il 40% si sente sovraqualificato. Chi percepisce di avere capacità molto più alte rispetto al lavoro che svolge prova insoddisfazione e tende a ridurre l’impegno;
- assenza di opportunità di crescita e sviluppo. La mancanza di percorsi di formazione, promozioni o mobilità interna spinge molti a “tirare i remi in barca”. Quando il lavoro non offre prospettive di avanzamento, è facile che i dipendenti decidano di limitarsi al minimo indispensabile;
- scarso allineamento valoriale con l’azienda. Il quiet quitting è frequente quando i valori dichiarati dall’organizzazione non trovano riscontro nella pratica quotidiana. I giovani lavoratori, in particolare, avvertono disillusione quando cultura aziendale e leadership non rispecchiano le promesse fatte in fase di assunzione;
- mancanza di flessibilità ed equilibrio vita-lavoro. La richiesta di tornare in ufficio a tempo pieno o la rigidità negli orari spinge molti a distaccarsi emotivamente dal lavoro. Secondo l’Employer Brand Research, il 35% dei lavoratori valuterebbe di cambiare azienda a causa di uno scarso work-life balance.
Le organizzazioni che fanno fatica a comprendere questi cambiamenti radicali e che si ostinano a rimanere fedeli ad un modello di lavoro ormai superato osserveranno con molta più frequenza fenomeni di quiet quitting.
quiet quitting, un’alternativa alla great resignation.
La great resignation - nota in Italia come “grandi dimissioni” - è un fenomeno diverso dal quiet quitting. Se quest’ultimo vede i lavoratori ridurre l’impegno senza però lasciare l’azienda, la great resignation è molto più radicale: le persone decidono di dimettersi, spesso anche senza un piano B, spinte dal desiderio di recuperare tempo, energia e benessere personale.
In base ai dati dell'ultima Employer Brand Research:
- il 13% degli intervistati ha cambiato datore di lavoro negli ultimi 6 mesi;
- il 24% prevede di farlo nei prossimi 6 mesi.
Numeri che confermano un trend già emerso negli anni passati e che resta particolarmente evidente tra i giovani e i profili con un livello di istruzione più elevato.
Questa scelta è spesso la conseguenza di un calo di motivazione e coinvolgimento: chi non trova più senso nel proprio ruolo o non vede prospettive di crescita può scegliere di abbandonare del tutto l’azienda.
Talvolta la great resignation rappresenta il passo successivo al quiet quitting, quando il distacco emotivo e la perdita di fiducia diventano così profondi da rendere inevitabile la decisione di dimettersi.
Altre volte, invece, i due fenomeni restano alternativi: alcuni lavoratori preferiscono semplicemente limitarsi al minimo indispensabile senza arrivare a lasciare il posto di lavoro.
come aumentare engagement e retention in azienda.
scarica la guidaquiet quitting: perché preoccupa le aziende.
Il quiet quitting preoccupa le aziende perché una squadra poco motivata, poco coinvolta e non fidelizzata non è una risorsa sulla quale puntare e poter contare.
Ne risente l’immagine aziendale, perché i dipendenti in quiet quitting non sono sicuramente ambasciatori in grado di generare un passaparola positivo.
Ne risente il business aziendale perché i quiet quitter non portano soluzioni innovative, non stimolano la crescita dell’azienda e non sono propensi al cambiamento.
Se in azienda molti dipendenti adottano questo atteggiamento, si va avanti facendo il minimo necessario per non affondare. Ma in un mercato altamente competitivo, chi non fa nulla per emergere rischia di restare inesorabilmente indietro rispetto a tutti gli altri.
come gestire il quiet quitting?
La buona notizia è che il quiet quitting può essere affrontato e gestito.
Certo, è indispensabile prenderne coscienza, munirsi delle risorse necessarie e investire tempo ed energie. Ma la situazione, nonostante le tendenze in atto, può essere recuperata.
Quello di cui non si può fare a meno nella gestione del quiet quitting, in ogni caso, è la disponibilità del datore di lavoro a mettersi in discussione e ad apportare cambiamenti, anche radicali, alla propria organizzazione e alla gestione delle proprie persone.
I passaggi obbligati sono tre:
- stabilire gli obiettivi;
- creare una cultura human-centric che promuova dialogo e confronto;
- migliorare l’employee experience e l’engagement.
stabilire gli obiettivi.
Il primo passo da compiere per gestire il quiet quitting è stabilire gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
Non si può chiedere ai dipendenti di fare e dare di più se non si sa dove si vuole arrivare.
Si deve quindi strutturare una strategia di crescita che sia ambiziosa, ma realistica, e condividerla con tutti i dipendenti, ad ogni livello.
Non bisogna però commettere l’errore di pensare di poter arrivare subito all’obiettivo finale. Piuttosto, è necessario stabilire:
- tappe intermedie;
- percorso da seguire;
- piano per emergere dalla stagnazione, in caso si verifichi, e cambiare rotta, un passo per volta.
creare una cultura human-centric che promuova dialogo e confronto.
Come abbiamo visto, il quiet quitting è spesso espressione di un’insoddisfazione dei dipendenti verso il proprio lavoro o l'azienda nel quale viene svolto.
Per questo motivo, nello stabilire obiettivi e roadmap, è essenziale adottare un approccio che metta al centro le persone, la loro esperienza, il loro benessere e la loro soddisfazione.
Tutto ciò si traduce nella necessità di promuovere una cultura del dialogo e del confronto tra dipendenti e dirigenti.
I responsabili devono quindi prendersi tempo per ascoltare le esigenze dei dipendenti e capire cosa li motiva e cosa, al contrario, rende il loro lavoro frustrante o poco motivante. Un’essenziale punto di partenza per apportare azioni correttive, laddove necessario.
Questo, ad esempio, potrebbe avvenire sottoponendo dei questionari di soddisfazione, pianificando momenti d’incontro a scadenza fissa, parlando con loro anche nei momenti informali, al di fuori delle occasioni prestabilite e soprattutto richiedendo sempre, con costanza, il loro feedback.
Osservando i dati dell’Employer Brand Research, infatti, emerge che il sostegno e l’ascolto da parte dei responsabili hanno un impatto significativo sulla motivazione dei dipendenti, in particolare tra le generazioni più giovani.
migliorare l’employee experience e il coinvolgimento dei dipendenti.
Il coinvolgimento dei dipendenti è una condizione necessaria per evitare o limitare il quiet quitting, ma è un obiettivo difficile da raggiungere: secondo il report State of the Global Workplace 2024 di Gallup, solo il 23% dei lavoratori si sente coinvolto nella propria attività lavorativa.
Come si può dunque far sì che i dipendenti si sentano più coinvolti? Offrendo loro una talent experience di valore.
I dati lo dimostrano: secondo una ricerca di Capgemini Research Institute, il 96% dei dipendenti che valutano la propria esperienza lavorativa come positiva si sente motivato e coinvolto nel lavoro quotidiano. Il 97% di chi vive un’employee experience positiva dichiara inoltre di voler restare in azienda per almeno 12 mesi, mentre il 94% raccomanderebbe la propria organizzazione come luogo di lavoro.
Un altro studio rafforza questa evidenza: esperienze lavorative positive migliorano la soddisfazione, il benessere psicologico e il senso di appartenenza dei dipendenti, elementi che a loro volta rafforzano l’impegno verso l’organizzazione e riducono l’intenzione di abbandonarla.
Secondo il Talent Trends Report di Randstad, offrire una talent experience di valore è uno dei principali trend HR per i prossimi anni, con un’attenzione particolare all’impiego di strumenti di automazione e intelligenza artificiale per personalizzare la talent experience.
Per una migliore talent experience le aziende dovranno dunque concentrarsi su cultura, valori condivisi e obiettivi, come sostenibilità, diversità e trasparenza, ma anche:
- promuovere l'esperienza dei dipendenti sviluppando iniziative che prevedano il loro contributo;
- fornendo feedback sul lavoro regolari;
- favorendo la collaborazione tra tutti i tipi di talenti come esercizio di creazione di relazioni.
Altrettanto fondamentale dare ascolto a quelli che sono i desideri e le necessità dei lavoratori. Elementi che fanno la differenza nella scelta di un nuovo datore di lavoro o nella decisione di lasciare il proprio impiego.
work-life balance e benessere.
Secondo quanto emerso dall’Employer Brand Research, il fattore più importante per i lavoratori nella scelta di un datore di lavoro è l'equilibrio tra lavoro e vita privata (59%). Seguito da un’atmosfera di lavoro piacevole (56%).
Di conseguenza, questo si traduce nella necessità di garantire una giusta flessibilità ai propri dipendenti, magari anche grazie a smart working o politiche di lavoro ibrido.
Per migliorare la soddisfazione dei dipendenti, inoltre, è necessario garantire un buon livello di benessere organizzativo. Aspetto che riguarda gli ambienti, ma anche, e soprattutto, il clima aziendale.
benefit materiali e immateriali.
Non vanno dimenticati i benefit aziendali, che secondo l’Employer Brand Research rappresentano il terzo fattore più importante per i lavoratori nella scelta di un datore di lavoro, subito dopo il work-life balance e l’atmosfera di lavoro.
Un aspetto sempre più rilevante è la personalizzazione: come evidenzia il Randstad Workmonitor, il 57% dei lavoratori sarebbe più motivato se ricevesse benefit personalizzati e non pacchetti standard uguali per tutti.
Assumono un peso crescente anche i benefit immateriali, cioè quelle condizioni che rendono l’esperienza lavorativa più soddisfacente e motivante. I lavoratori, infatti, guardano con attenzione a:
- opportunità di crescita e sviluppo professionale. La possibilità di acquisire nuove competenze o avanzare di carriera è fondamentale per i lavoratori, soprattutto per i profili con istruzione elevata e per le generazioni più giovani;
- senso di riconoscimento. Il 26% dei lavoratori indica l’adeguato riconoscimento e apprezzamento per il proprio lavoro come elemento chiave per mantenere alta la motivazione. Quando manca, cresce la probabilità di disimpegno e quiet quitting.
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scopri di piùformazione e sviluppo.
La possibilità di crescere professionalmente attraverso percorsi di formazione, riqualificazione e/o miglioramento delle competenze è oggi una delle leve più forti per trattenere i dipendenti e attrarre nuovi talenti.
Secondo l’Employer Brand Research, la formazione occupa il settimo posto tra i principali driver nella scelta di un datore di lavoro. Dato che trova conferma anche nel Randstad Workmonitor: il 38% dei lavoratori prenderebbe in considerazione di lasciare l’azienda se non avesse accesso a percorsi di formazione e sviluppo.
Le nuove generazioni sono particolarmente sensibili a questo tema: il 76% della Gen Z e il 69% dei Millennials considerano la formazione continua, lo sviluppo professionale e l’innovazione come parte integrante dell’esperienza lavorativa.
Sono lavoratori che vogliono crescere, sperimentare e acquisire nuove competenze per rimanere competitivi.
quiet quitting: perché il cambiamento può essere una soluzione giusta.
Limitare l’impegno sul lavoro al minimo indispensabile permette senza dubbio di recuperare le energie, tutelare la salute mentale e ristabilire i confini tra lavoro e vita privata quando le pressioni diventano eccessive.
Tuttavia, si tratta di una strategia temporanea: restare a lungo in una condizione di distacco emotivo e mentale dal proprio lavoro può diventare logorante.
È utile fermarsi ad analizzare la propria situazione. Domandarsi, ad esempio, se il malessere sia legato a un periodo di sovraccarico temporaneo o se derivi da problemi strutturali dell’organizzazione.
Stress dovuto a progetti impegnativi o a fasi particolari può richiedere un momento di rallentamento; ma quando le cause sono più profonde - come una leadership inefficace, la mancanza di riconoscimento o di prospettive di crescita e sviluppo - il quiet quitting è sintomo di un disagio più radicato.
In questi casi, valutare un cambiamento può essere la scelta più indicata. Non significa fuggire, ma cercare un contesto lavorativo sano, più allineato ai propri valori e bisogni. Un nuovo percorso professionale può offrire opportunità di crescita, equilibrio e motivazione che l’attuale ambiente non è in grado di garantire.
Riconoscere quando è il momento di cambiare è un atto di consapevolezza: significa non rassegnarsi a un lavoro che consuma energie senza restituire nulla in cambio e investire invece in un futuro professionale più soddisfacente.
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