Scegliere il percorso universitario da intraprendere non è mai semplice. Entrano in gioco passioni, aspettative, inclinazioni personali, ma anche - inevitabilmente - valutazioni più concrete, come le prospettive occupazionali dopo la laurea.
Per quanto possa sembrare riduttivo, non tutte le facoltà offrono le stesse chance di trovare lavoro. Alcune aprono immediatamente le porte a carriere ben retribuite; altre, invece, nonostante la qualità della formazione, faticano a garantire un accesso rapido e stabile al mondo del lavoro.
Non si tratta di stabilire se una laurea sia “giusta” o “sbagliata” in senso assoluto. La questione è più sottile: riguarda l’incontro - o la mancanza di incontro - tra la formazione accademica e le richieste reali del mercato del lavoro. Un disallineamento che, in alcuni ambiti, è diventato strutturale, producendo tassi di disoccupazione più elevati tra i neolaureati.
In questo articolo approfondiremo le ragioni di questo divario e proveremo a rispondere a una domanda che molti studenti si pongono prima di iscriversi a un corso di laurea: ci sono percorsi universitari che espongono di più al rischio di disoccupazione? E se sì, quali sono?
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perché alcune lauree offrono meno possibilità di trovare un lavoro?
Non tutte le lauree garantiscono le stesse opportunità di ingresso nel mondo del lavoro, e questo è ormai un dato di fatto ben documentato da ricerche e statistiche. A incidere in modo determinante sul tasso di occupazione dei laureati non è solo il livello di istruzione, ma anche - e soprattutto - l’area disciplinare di riferimento.
Secondo l’ultima indagine ISTAT sui livelli di istruzione e ritorni occupazionali, i laureati nell’area umanistica e dei servizi registrano un tasso di occupazione del 79,5%, ben al di sotto di quello dei laureati in discipline medico-sanitarie (88,6%), STEM (86,6%) o dell’area socio-economica e giuridica (84,2%). Le differenze sono quindi sostanziali e, per certi versi, strutturali.
A confermare questo scenario è anche il Rapporto 2025 del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea: alcuni gruppi disciplinari risultano sistematicamente penalizzati in termini occupazionali. È il caso delle lauree in ambito letterario-umanistico (come la laurea in sociologia), artistico, linguistico, psicologico, politico-sociale e giuridico.
A parità di condizioni, i laureati in queste aree faticano più degli altri a inserirsi nel mercato del lavoro o impiegano più tempo a farlo. Al contrario, chi esce da corsi di studio come ingegneria, medicina, informatica, agraria, economia o architettura incontra meno ostacoli e ha maggiori probabilità di trovare un impiego stabile e coerente con il proprio percorso.
Ma perché accade tutto questo? Come mai una laurea in lettere, arte o psicologia - pur basandosi su percorsi di formazione completi e culturalmente ricchissimi - può esporre a un rischio più alto di disoccupazione?
Il nodo principale sta nel disallineamento tra il mondo accademico e il mercato del lavoro. Alcune lauree, soprattutto quelle in ambito umanistico e sociale, permettono di acquisire competenze generali e trasversali, molto apprezzate in linea teorica (pensiero critico, capacità comunicative, …), ma difficili da collocare in modo immediato e concreto nei ruoli professionali richiesti dalle aziende. In pratica, il bagaglio culturale è solido, ma poco “spendibile” in assenza di specializzazioni ulteriori o percorsi professionalizzanti.
Un altro fattore determinante è il rapporto tra numero di laureati e domanda effettiva di lavoro. In alcuni settori, l’offerta formativa è ancora molto elevata rispetto alle reali esigenze del mercato. Ne sono un esempio i corsi di psicologia, giurisprudenza o scienze politiche, che ogni anno sfornano migliaia di laureati a fronte di un numero limitato di sbocchi professionali stabili. Questo genera un eccesso di concorrenza interna e, spesso, costringe i neolaureati ad accettare lavori al di sotto delle proprie qualifiche o fuori dal proprio ambito.
Al contrario, le aziende faticano a trovare candidati qualificati in ambito tecnico-scientifico, che abbiano cioè una laurea in ingegneria, informatica, medicina o discipline STEM, come la laurea in biotecnologie. Qui, il problema è l’opposto: c’è più domanda di lavoro che offerta formata. Non sorprende quindi che i laureati di queste facoltà trovino più facilmente lavoro, spesso già pochi mesi dopo la laurea.
Va anche considerata la diversa professionalizzazione dei percorsi. Alcune lauree preparano direttamente a una professione, con competenze tecniche e pratiche immediatamente applicabili. Altre, come lettere o filosofia, richiedono spesso un ulteriore livello di specializzazione per trovare uno sbocco concreto (master, tirocini, dottorati, corsi abilitanti), allungando di fatto i tempi di ingresso nel mercato del lavoro.
Inoltre, alcune lauree sono considerate come “poco produttive” da parte delle imprese, che prediligono profili con competenze misurabili, certificabili e facilmente inquadrabili all’interno di una funzione aziendale.
Questo non significa che alcune lauree siano “inutili” o da evitare. Il valore formativo di ogni percorso accademico è enorme. Tuttavia, è importante avere consapevolezza delle dinamiche occupazionali e, se si sceglie un percorso a rischio, valutare fin da subito strategie per compensarlo: ad esempio, acquisire competenze digitali, frequentare master o corsi professionalizzanti, fare esperienze di tirocinio durante o subito dopo la laurea.
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lauree e disoccupazione in Italia.
Secondo i dati del già citato Rapporto 2025 di AlmaLaurea, in Italia il legame tra titolo di studio universitario e occupazione è in lenta ma costante evoluzione.
La situazione appare incoraggiante sotto diversi aspetti, soprattutto se confrontata con quella del decennio precedente. A un anno dal conseguimento della laurea, il tasso di occupazione ha raggiunto il valore più alto degli ultimi dieci anni: 78,6% sia per i laureati triennali che per quelli magistrali. Un risultato che segna un miglioramento di +4,5 e +2,9 punti percentuali rispetto al 2023.
Se si allunga l’orizzonte a cinque anni dal conseguimento del titolo, il tasso di occupazione sale al 92,8% per i laureati di primo livello e all’89,7% per quelli di secondo livello. I dati hanno subito variazioni minime rispetto all’anno precedente.
Il tasso di disoccupazione, a un anno dalla laurea, si attesta al 9,7% tra i laureati triennali e al 10,2% tra i magistrali. Dopo cinque anni, la disoccupazione scende al 3,4% per i laureati di primo livello e al 4% per quelli di secondo livello. Si tratta di valori pressoché invariati rispetto a quelli registrati nel 2023.
Questi segnali positivi non devono però far dimenticare una realtà più complessa. L’Italia, infatti, continua a occupare una delle ultime posizioni in Europa per quanto riguarda l’occupazione dei neolaureati.
la situazione in Europa è diversa?
Secondo gli ultimi dati Eurostat sul tasso di occupazione dei giovani neolaureati, nel 2024
l’Italia si è posizionata all’ultimo posto tra gli Stati membri dell’Unione Europea per tasso di occupazione dei giovani neolaureati.
Rientrano nella definizione di “neolaureato” tutti gli individui tra i 20 e i 34 anni che hanno completato un percorso di istruzione secondaria superiore o terziaria nei tre anni precedenti. Si tratta, quindi, di giovani ancora in fase iniziale della propria carriera, spesso motivati, aggiornati sulle competenze richieste dal mercato e in cerca della prima vera occasione professionale. Ma in Italia, per molti di loro, quell’occasione tarda ad arrivare.
Nel nostro Paese, solo il 69,6% dei giovani che hanno completato gli studi universitari negli ultimi 1-3 anni riesce a trovare un impiego, contro una media UE dell’82,3%.
Il divario diventa ancora più evidente se si guarda ai Paesi che guidano la classifica. In Norvegia il tasso di occupazione dei neolaureati raggiunge il 91,8%, nei Paesi Bassi si attesta al 91,6% e in Germania al 90,5%.
All’estremo opposto troviamo l’Italia (69,6%), in coda alla graduatoria europea, seguita da Grecia (73,2%) e Romania (75%). Questo significa che oltre tre neolaureati italiani su dieci restano senza un’occupazione anche a distanza di anni dal conseguimento del titolo, nonostante l’investimento di tempo e risorse nella formazione universitaria.
Il problema non è marginale: riflette criticità strutturali che vanno dal disallineamento tra percorsi accademici e competenze richieste dal mercato alla carenza di politiche attive per il lavoro e di servizi di placement universitari realmente efficaci. In altre parole, il sistema italiano fatica a creare un ponte stabile tra università e mondo del lavoro.
Nei Paesi ai vertici della classifica, invece, esistono strategie integrate che facilitano l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro: tirocini di qualità durante il percorso di studi, forti incentivi all’assunzione, programmi di apprendistato e una rete di orientamento capillare. Il risultato? Una transizione rapida, quasi immediata, dal conseguimento del titolo di studio al primo impiego.
Per i giovani italiani, invece, il percorso è più lungo e tortuoso. E questo, oltre a rallentare l’avvio delle carriere, alimenta fenomeni come la fuga dei cervelli: molti laureati scelgono di trasferirsi all’estero, attratti da Paesi che offrono maggiori opportunità professionali.
I dati Eurostat sono un campanello d’allarme in questo senso. Se non si interviene per colmare il gap con gli altri Paesi, l’Italia rischia di continuare a perdere capitale umano qualificato, con conseguenze pesanti sulla competitività complessiva del sistema produttivo.
conclusione.
I dati parlano chiaro: esistono percorsi universitari che, a parità di impegno e preparazione, espongono a un rischio maggiore di disoccupazione.
Questo non vuol dire che alcune lauree siano “sbagliate”. Ogni percorso accademico è un’occasione di arricchimento personale e professionale, ma è fondamentale conoscere in anticipo le sue reali prospettive occupazionali. A volte, l'entusiasmo iniziale può scontrarsi con un mercato del lavoro poco ricettivo, generando frustrazione e rallentando l'ingresso nel mondo del lavoro.
D’altra parte, anche le facoltà considerate “più sicure” dal punto di vista occupazionale non garantiscono automaticamente il successo. Nessun titolo, da solo, è una garanzia. È l’insieme delle competenze, delle esperienze acquisite, della capacità di adattamento e - non da ultimo - delle scelte fatte durante e dopo il percorso universitario a fare la differenza.
Cosa fare se non si trova un lavoro dopo la laurea? Valutare offerte di lavoro in settori solo parzialmente affini al proprio percorso di studi oppure considerare l’idea di trasferirsi in un’altra città per lavorare, magari dove il mercato è più dinamico e le opportunità sono più numerose (leggi anche: dove trasferirsi per trovare lavoro).
La disponibilità a cambiare prospettiva è una risorsa molto preziosa in queste situazioni. Tuttavia, la strategia migliore resta quella di giocare d’anticipo: prima ancora di scegliere il corso di laurea, sarebbe opportuno analizzare con lucidità le prospettive occupazionali, tenere conto delle tendenze del mercato del lavoro e interrogarsi su come trovare lavoro in un determinato settore.
Una scelta consapevole oggi può aiutare a costruire un domani più solido e soddisfacente. Conoscere i rischi non serve a scoraggiarsi, ma a pianificare con più intelligenza il proprio futuro.